Techiche visuali: Intensità

Da Sezione Pianeti UAI.

Versione delle 08:44, 5 ott 2007, autore: Idalprete (Discussione | contributi)
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Introduzione alle stime

Le stime visuali di luminosita' dei dettagli planetari sono molto usate soprattutto per la loro semplicita'. Esse furono introdotte nella forma attuale da G. De Vaucouleurs nel 1939 nell' ambito dell' osservazione di Marte, e consistono nella valutazione fotometrica di un' area, piu' o meno ristretta, del disco planetario. Come tali si differenziano dalle stime di magnitudine delle stelle variabili che avendo per oggetto la luminosita' di un punto isolato, consentono un metodo osservativo piu' rigoroso basato sul confronto con altre stelle vicine di luminosita' nota.

Ogni stima visuale e' una valutazione soggettiva affetta da numerosi tipi di errore, essendo condizionata dalla fisiologia e dalla psicologia della visione. Evidentemente, al di la' delle difficolta' operative, le stesse misure effettuate su immagini fotografiche (usando un fotodensitometro) o su riprese CCD, permettono una consistenza interna ben maggiore e forniscono valori verificabili, poiche'; tuttavia tali tecniche, proprio per la loro complessita' e lentezza di esecuzione, non sono state mai molto in uso, e gran parte delle registrazioni storiche di luminosita' dei dettagli planetari e' reperibile in forma di stime visuali. Questa e' gia' di per se' una buona ragione per continuare la raccolta di dati mediante tale metodologia: i dati sono omogenei rispetto a quelli ottenuti in passato, e la conseguente estensione della documentazione non puo' che favorire i lavori di analisi. CCD ed emulsione fotografica, infatti, operano in modo completamente diverso dall' occhio umano, il che comporta difficolta' di confronto pressoche' insuperabili.

La risposta dell' occhio di osservatori diversi non e' mai esattamente la stessa ed introduce errori sistematici: se vi fossero dubbi, basta confrontare una qualsiasi serie di stime reali, effettuate in condizioni simili da persone diverse. Inoltre la limitata sensibilita' dell' apparato visivo nella distinzione di livelli di grigio porta a commettere errori statistici. Non si puo' dunque evitare che la singola stima abbia un certo carattere di aleatorita'. Adeguate analisi di tipo statistico consentono tuttavia di ottenere dei valori medi significativi, sempre che si disponga di un certo numero di stime, anche se eseguite da osservatori diversi in differenti condizioni osservative.

Scale di Luminosità

Per quantificare la brillantezza di un dettaglio planetario sono state ideate alcune scale standard internazionali. La piu' diffusa in Europa e' quella inglese, adottata anche dall' Unione Astrofili Italiani, che attribuisce ai dettagli planetari un valore compreso tra 0 e 10, dove 0 indica la luminosita' massima "normale" e 10 l' assenza di luce. Di solito vengono posti come valori fissi la luminosita' delle calotte polari di Marte, pari a 0, quella della parte esterna dell' anello B di Saturno alle anse, pari a 1, e quella del fondo cielo buio, pari a 10. Questa impostazione non e' certo esente da critiche, perche' tutti e tre i riferimenti hanno in realta' luminosita' variabile: le calotte di Marte possono opacizzarsi lievemente per la presenza di veli atmosferici, l' anello B di Saturno appare piu' scuro quando l' apertura del sistema anulare scende sotto un certo angolo (6-7 gradi), e la scurezza del fondo cielo dipende dalle condizioni atmosferiche, dal sito osservativo, dallo strumento e dall' ingrandimento impiegato. Puo' dunque avvenire che l' osservatore debba valersi della memoria per individuare il riferimento 0, e in casi eccezionali, che ricorra a valori negativi per registrare casi di brillanza assolutamente anomala. E' comunque opinione generale che tali standard vadano presi come indicazioni di massima, e che l' osservatore debba lavorare soprattutto di buon senso e di esperienza. Questa scala e' quella a cui faremo riferimento nel seguito, e che gli osservatori della Sezione Pianeti dell'Unione Astrofili Italiani adottano per i programmi osservativi, tranne per quallo di Venere di cui si dira' oltre.

In relazione al largo uso internazionale (particolarmente negli Stati Uniti e in Giappone) e' opportuno richiamare la scala standard americana, la quale va da 0 a 10 ma e' rovesciata rispetto a quella inglese: lo 0 corrisponde a nero, il 10 alla massima luminosita'. L' anello B di Saturno viene ad avere intensita' 8, e non 9, come ci si dovrebbe aspettare se i due standard fossero direttamente confrontabili. La discrepanza si verifica anche dal confronto delle stime di altri dettagli, e pare di poter dedurre che le differenze siano da imputarsi alla diversa impostazione psicologica che presiede ai due metodi di stima: la scala inglese e' orientata a stimare la "scurezza" di un dettaglio, mentre quella americana, invertita, suggerisce piuttosto di giudicare la "brillantezza" dello stesso. Nell' ambito delle stime su Saturno e' stata ricavata empiricamente la seguente formula di conversione (da utilizzarsi con cautela) che fornisce la stima "americana" a partire da quella "inglese" con una deviazione standard di 0.62:

S(ALPO) = (8.4 ± 0.3) - (0.88 ± 0.06) S(UAI)

Diverso e' il caso di Venere, in quanto su di essa sono visibili soltanto leggeri scurimenti su sfondo molto chiaro: la scala di riferimento, pertanto, va da 0 (massima luminosita') a 5 (massimo chiaroscuro osservabile), assumendo pari a 2 l' intensita' normale del centro del disco o della falce illuminata. Beninteso, anche per questa scala valgono le critiche fatte a proposito delle altre: gli standard cosi' definiti sono variabili e percio' vanno intesi come indicazioni di massima. Orientativamente si puo' dire che il valore 5 della scala di Venere, peraltro eccezionale, corrisponde all' incirca al 3 di quella standard.

La misura di intensita', apparentemente semplice, cela dunque molteplici difficolta', anche soltanto per essere definita. Qualche suggerimento di ordine pratico puo' ridurre, specie inizialmente, l' eventualita' di commettere errori grossolani. Ad esempio, dopo aver ispezionato a lungo l' immagine al telescopio, si possono mettere i dettagli in ordine di luminosita', crescente o decrescente, e successivamente fissare gli standard stabiliti. Si potrebbe poi individuare un dettaglio posto a un gradino intermedio (intorno a 5) e, in ultimo, assegnare tutti gli altri valori. Non vale la pena di stimare con una precisione superiore al mezzo gradino, in quanto la singola misura contiene comunque un' incertezza di quest' ordine, o anche maggiore. Infine puo' essere utile dare una stima orientativa, sulla stessa scala, dell' intensita' del fondo cielo attorno al pianeta. Errori sono comunque inevitabili. Il primo e' quello dovuto all' inesperienza: ci vuole tempo prima che un osservatore acquisisca un' idea stabile dei valori di riferimento della scala. Un secondo deriva da una risposta diversa agli stimoli luminosi da parte dei diversi osservatori, poiche' come detto nessun occhio e' esattamente uguale ad un altro. Vi e' poi la tendenza quasi ineliminabile a vedere meno contrastati rispetto allo sfondo i dettagli al limite della visione a causa dei limiti imposti dal seeing e dal potere risolutivo del telescopio; cosi' pure induce in errore il contrasto fra regioni adiacenti molto chiare o scure. Alcuni osservatori tendono a essere influenzati dal colore, mentre la stima si riferisce alla "energia irradiata"; infine vi puo' essere l' influenza psicologica del ricordo di stime eseguite in precedenza (errore da aspettativa).

Fermo restando che la fotometria visuale ha prodotto risultati apprezzabili nella descrizione delle variazioni che intervengono sulle superfici planetarie, l'incertezza delle stime e le difficolta' inerenti al loro trattamento statistico non possono che suggerire lo sviluppo di una metodologia piu' rigorosa. Estremamente promettente e' quella legata all'utilizzo dei sensori CCD, i quali forniscono direttamente e su scala molto ampia i valori d'intensita' (livelli di grigio) relativi ad ogni singolo elemento d'immagine (pixel). Si tratta dunque di definire e standardizzare delle procedure convenienti per rigore, semplicita' e affidabilita', in grado di sostituire quelle tradizionali negli anni a venire.

Scale di Colore

Un' applicazione un po' trascurata, ma non priva di interesse, delle stime di intensita', e' quella di tentare con esse una misura "oggettiva" del colore. Il principio e' semplice: eseguendo due stime con filtri diversi, ad esempio blu e rosso, la differenza algebrica fra esse e' un "indice di colore" per quanto rozzo. Se l' osservatore non si lascia influenzare dall' errore di aspettativa, tale indice puo' avere una sua validita', non certo nella stima singola, ma nella media statistica di molte stime. Perche' i risultati abbiano senso occorre che la densita' globale di ciascun filtro impiegato sia all' incirca la stessa, ed e' consigliabile per la confrontabilita' usare filtri standard (come quelli della serie Wratten). L' errore su un indice di colore, essendo la differenza fra due stime, e' doppio di quello di ciascuna delle due. Tuttavia, questa misura puo' essere utilmente confrontata con una stima diretta del colore, ottenuta osservando il pianeta senza alcun filtro. A questo proposito e' bene ricordare che la fisiologia della visione consente la percezione dei colori solo al di sopra di una certa soglia di illuminamento (non a caso nella penombra tutto appare grigio), e l'esperienza insegna che le indagini colorimetriche delle superfici planetarie richiedono un'apertura minima intorno ai 20 cm (si veda anche l'articolo Stime dei colori sui pianeti, in: Astronomia UAI, 1994, n. 3) .

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